di Roberta Sireno
«Il nomadismo non è la fluidità priva di confini
(Rosi Braidotti)
bensì la precisa consapevolezza della non fissità dei confini.
È l’intenso desiderio di continuare a sconfinare, a trasgredire.»
Esiste un pensiero filosofico che porta in sé l’idea di un cambiamento e di una trasformazione vitale. Sulla scia di un dibattito internazionale che attraversa le teorie del post-strutturalismo, la riflessione di Rosi Braidotti, intellettuale e filosofa teorica del femminismo, si snoda attraverso molteplici percorsi. La figurazione centrale attorno alla quale Braidotti articola la propria analisi è quella di una soggettività nomade, una soggettività pensante ed incarnata. La politica nomade vuole essere un nuovo sistema di pensiero, o meglio, una nuova modalità del vivere nello scenario aperto dalla crisi della modernità occidentale. Di qui la necessità di tracciare dei punti di fuga: le fughe «nomadi» intendono delineare un nuovo tipo di soggetto, trasgressivo e fluido, non più radicato nell’unicità universale e astratta del pensiero umanista. È una soggettività, dunque, incarnata, che si situa in uno spazio fisico, materiale e corporeo, affermando la propria differenza in termini di classe, razza, sesso, età, nazionalità e cultura. Il soggetto nomade afferma, dunque, la questione centrale della differenza per tentare di creare altri mondi, altri modi di pensare: egli segue le linee di un movimento decostruttivo, mettendo in discussione la nozione tradizionale di «Uomo», sulla scia dell’antiumanesimo di Michel Foucault, per avviarsi verso i sentieri della defamilirizzazione e della disidentificazione in nome di un’intrinseca complessità e fluidità.
Essere nomadi significa avere consapevolezza della propria posizione, una posizione che però ha natura transitoria perché si inserisce in una molteplicità di reti di connessioni e di proliferazioni, riconoscendo le differenze. Ciò non significa non poter o non voler creare quelle basi stabili e rassicuranti dell’identità all’interno di una comunità, piuttosto l’identità non è considerata come permanente. Essere nomadi diventa importante se si vuole sopravvivere in uno spazio oggetto di continue mutazioni e transizioni, e se si vuole liberarsi creativamente dal pensiero sedentario e logocentrico. Il compito più difficile consiste nel non abbandonarsi a quell’ingannevole congedo storico che si traduce nel luogo comune dell’impossibilità di agire, stando così nell’apatia personale e collettiva propria del liberalismo politico neo-conservatore.
«Il soggetto nomade viene calato nella dimensione etica in opposizione all’ideologia del conservatorismo, dell’individualismo e del tecno-capitalismo. Un’etica che non deve avere niente a che fare con la morale kantiana della negoziazione e della reciprocità, ma molto con l’amore per il mondo.»
(R. Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade, 2008)
Occorre una nuova creatività da parte di soggetti desideranti, ovvero da parte di coloro che fanno andare insieme la volontà di cambiamento con il desiderio del nuovo; occorrono, quindi, nuove forme di presenza che superino i regimi sociali e politici del controllo sui corpi e sul pensiero. I processi di mutamento e di trasformazione comportano un senso di perdita, di nostalgia e di sofferenza ma abbiamo bisogno di fughe nomadi per superare le contraddizioni interiori, sociali, individuali e collettive di stringente attualità. Il nomadismo è un invito ad elaborare delle strategie che possano portare avanti una politica innovativa, non più egemone ed esclusiva, ma che segua, come dichiara Deleuze, il vettore della deterritorializzazione: occorre abbandonare ogni idea, desiderio o nostalgia di stabilità, oltrepassando i limiti di un’unica e fissa identità nazionale.